SUCCEDE IN IMMERSIONE

SUCCEDE IN IMMERSIONE

Bella l‘immersione ricreativa, non crea problemi e non c’è nulla di cui preoccuparsi, le semplici regole imparate al corso rendono tutto facile e automatico, poi basta seguire le indicazioni del computer e i segnali della guida. Dopo un’oretta ci si ritrova in barca a scherzare, l’immersione non ha richiesto nulla d’impegnativo. Ma è proprio così? Forse le nostre attrezzature non la pensano allo stesso modo e il nostro fisico ci considera quanto meno degli ingrati. Perché loro, attrezzature e fisico, si sono dovuti impegnare eccome, senza potersi permettere un attimo di relax. Mettiamoci per un momento dalla loro parte, vediamo se hanno ragione.

In effetti, le loro fatiche iniziano ancora prima del tuffo, quando apriamo il rubinetto della bombola. In quell’istante quel poveretto del primo stadio riceve una “botta” da 200 chili al centimetro quadrato corrispondente alla pressione dell’aria della bombola carica al massimo, botta in parte alleviata se ci ricordiamo di tenere premuto il pulsante del suo secondo. Lui non fa una piega, le sue molle e membrane sopportano in silenzio. Al manometro va un po’ meglio, dato che l’aria lo raggiunge alquanto fiaccata dal foro quasi capillare da cui è costretta a passare. Eppure quel tubicino piatto a forma di gancio e chiuso da un lato, il cuore del suo meccanismo che i sapientoni chiamano tubo di Bourdon, in un paio di secondi si deve adattare a quella pressione spaventosa senza lasciarsi scappare nemmeno una bollicina, si contorce esattamente come previsto e attraverso qualche rotella aziona la lancetta sul quadrante portandola a fermarsi sul 200. Noi non ci siamo accorti di nulla. Saltiamo in acqua dando una pompatina col Vis così ce ne restiamo comodi a galleggiare in attesa degli altri, lasciando al gav o BC per gli inglesisti il compito di annullare le pretese dell’intransigente Archimede, tutto voglioso di trascinarci giù. È il momento di andare, via qualche bolla dal gav e la superficie si allontana. A -3 metri il fisico si mette in allarme, finora non si era accorto di niente ma adesso qualcosa spinge sui timpani, iniziano a dolere, per fortuna il loro padrone si chiude il naso e senza pensarci soffia risolvendo il problema. O meglio, come aveva raccontato una sera l’istruttore che sa sempre tutto, fa tornare pervie le tube di Eustachio collabite, che in parole umane significa avere forzato dei tubicini a riaprirsi visto che si erano schiacciati. Chi fosse Eustachio non l’ha mai confessato. Il fisico pensa ‘meno male’, ma sorge un altro problema per cui la discesa accelera troppo, adesso a rompere la pace ci pensano quei due vecchi barbogi di Boyle e Mariotte. Un giorno decisero di diventare famosi con la frase “a temperatura costante la pressione e il volume di un gas sono tra loro inversamente proporzionali”, in altre parole noi poveri sub spofondando ci schiacciamo: la muta diventa più sottile, il gav diminuisce di volume e la pancia pure. Peccato che risalendo tornerà come prima. I polmoni restano uguali dato che il paziente erogatore gli invia aria sempre a pressione ambiente. Quei due sembrano essersi alleati col famoso greco di Siracusa e col suo principio della spinta idrostatica descritta 2000 anni prima. Non c’è un momento di pace, o si tende ad andare su o si tende ad andare giù, cose per noi facilmente risolvibili bravi come siamo a stabilizzarci col monocomando detto Vis e un colpetto di pinne. A 27 metri il fondale è a una spanna, il dittatore-guida dice stop scendere, dice seguitemi, dice guardatevi intorno. Bello, il fondale chiaro di sabbia è macchiato qua e là da piccole distese di posidonia (odia essere scambiata per alga), poco lontano nuotano pigri e attenti due bei pescioni azzurrognoli, ci seguono ma si tengono alla larga. Dentici. Quel mucchio di cosine nere sono castagnole e manco le degniamo di uno sguardo, ma ecco che il dittattore tutto eccitato ci fa segni disperati di guardare verso l’alto ed ha ragione, stanno passando in formazione 5 mobule divenute meno rare di un tempo, sorelle minori delle fascinose mante tropicali. Poi indica imperioso il computer, è ora di iniziare a risalire. Il gav e qualche pedalata con le nostre pinne morbide ci portano su piano, nel nulla. Anzi no, perché questa è una giornata fortunata e sono venuti a trovarci in branco i lucci di mare che gli scienziati definiscono Sphyraena sphyraena, qui da sempre ma diventati tanti e per l’emozione di noi sub chiamati barracuda, di cui in effetti sono cugini. Girano in tondo per far festa ed è festa per tutti. A -5 metri c’è lo stop per la sosta di principio, una fermata prudenziale per garantirci contro ogni minimo rischio. Rischio di che? Di bolle. Prima non ne avevamo nel sangue, ma nello stesso preciso istante in cui ci siamo staccati dal fondo, dalla massima profondità raggiunta, in circolo sono comparsi improvvisamente sciami di bollicine. Piccole, mille e mille volte inferiori a quelle dell’ottimo champagne di capodanno, eppure largamente sufficienti a mettere in allarme i nostri sensori che le seguono attenti nel loro percorso liberatorio oltre i polmoni. Ma cosa sono? Azoto, quello che si è disciolto nei tessuti con l’aumento della pressione ambiente e che adesso vuole tornarsene libero. Facendo esattamente ciò che aveva dichiarato legge un altro sapientone un paio di secoli fa, tale Henry: disse, riassumendo: “la quantità di gas che si scioglie in un liquido è direttamente proporzionale alla pressione del gas sul liquido e al tempo in cui si esercita la pressione”. Se ci comportiamo secondo le regole le bollicine, anzi le microbolle, non danno alcun fastidio infatti si chiamano asintomatiche, termine che la pandemia in corso ci ha reso familiare. I polmoni le smaltiscono in silenzio col loro lavoro continuo e per questo ci chiedono solo di respirare a fondo e lentamente. Se però ce ne facciamo un baffo dell’istruttore lontano, della guida vicina, degli avvisi del bel computerino al polso, ci fanno presto capire quanto possano essere carogne. Venendo su troppo veloci aumentano di numero e sarebbe già un problema, l’altro più grave è colpa ancora dei soliti Boyle & Mariotte che le fanno crescere di volume in rapporto alla diminuzione di pressione. E se crescono troppo di numero e di volume possono arrivare a crearci problemi seri, molto seri, serissimi in rapporto alla loro mania di protagonismo e, soprattutto, alla nostra iella o cretineria. 

Mettiamo che nei lunghi noiosi minuti di stand-by sotto la barca a un nostro compagno imbranato cada la GoPro che teneva in mano, la vede correre giù e ovviamente la segue pinnando dannatamente, la agguanta a un metro dal fondo e torna su velocissimo pensando che prima è meglio è. Vediamo che il solito rompi si sbraccia ma non capiamo che vuole, lo raggiunge e con autorevole forza lo rallenta e lo porta fino a quella bombola che pende come un salame sotto la chiglia. Già, è quella dell’ossigeno sempre pronta in caso qualcuno stia male, ma quello non ha niente, sembra stia benissimo, allora perché cavolo..... Si attacca al suo erogatore sbilenco, l’ordine è chiaro e indiscutibile: respirare lì per almeno 10 minuti, mentre noi ci cambiamo e sghignazziamo per la sua bravata. Ragioniamo e ci tornano in mente alcune cose sentite. Il suo problema è evidentemente lo smaltire senza conseguenze le bolle in aggiunta formatesi nella rapida andata-ritorno del recupero, ma perché l’ossigeno? Vediamo di ricordare. Con quella ridiscesa a rompicollo la massa di bollicine che si erano liberate dai tessuti nel momento dello stacco dal fondo torna in parte da dove era venuta, le loro dimensioni di nuovo micro le portano a intrufolarsi ovunque. Un secondo dopo riaumentano di grandezza nella risalita ultrarapida e potrebbero fare fatica a trovare la via del ritorno, inoltre diventano ancora più numerose rischiando che i polmoni fatichino a smaltirle. Le bolle sono al 100% di azoto, dato che l’ossigeno dell’aria respirata à stato “bruciato” con le funzioni metaboliche. Adesso che l’amico è fermo a -5 metri la pressione parziale del loro azoto è quindi pari alla pressione ambiente ossia a 1,5 bar. A questo punto occorre fare un paio di facili calcolini che gli istruttori sapientoni sanno derivati da un’ulteriore legge fisica, scoperta da un altro pozzo di scienza inglese verso metà del 1800, John Dalton. Per i curiosi recita: “La pressione esercitata da una miscela di gas è uguale alla somma delle pressioni parziali dei gas che compongono la miscela”. Tornando all’amico, quando le sue bollicine arrivano agli alveoli per andarsene fuori incontrano aria (79% N2 + 21% O2), dove la pressione parziale dell’azoto è 0,79 x 1,5 = 1,18. Se invece il gas ora respirato non è aria ma ossigeno puro, quindi senza traccia di azoto, risulta intuitivo che la strada per l’inerte pronto ad essere buttato fuori risulti decisamente in discesa (l’inerte è ovviamente l’N2, il quale non partecipa al metabolismo e serve solo da riempitivo, oltre a rompere enormemente le scatole in immersione). Questo come semplice concetto, senza tenere conto di tante altre cose noiose. Possibile che siano successe tutte queste complicazioni per i meno di due minuti di recupero della GoPro? Probabilmene in questo caso ci si è solo avvicinati al pericolo, pur se sentire il miagolio d’allarme del computer e vedere la preoccupazione della guida solerte ha messo un po’ tutti in agitazione. L’immersione condotta ben dentro la curva di sicurezza, la profondità tranquilla e il tempo minimo dell’imprudenza hanno evitato il guaio grosso, l’ossigeno ha poi fatto fare la pace a bolle e tessuti. Intanto il sole ci ha riscaldato ed è finalmente arrivato il momento del panino o forse degli spaghetti se la diving boat è più di classe. Poi la barca si muoverà piano verso la prossima mèta, la seconda immersione tra un’oretta sarà semplice e facile come la prima.

Luigi Fabbri